Ambientazione: anni ’80, po-meriggio di primavera, casa popolare in affitto, papà e mamma con quattro figli tirati su con uno stipendio solo… Mi trovo lì per caso, perché aspetto che uno di loro si prepari per uscire insieme. Interno ingresso. Suona il campanello: va ad aprire la figlia più giovane che sussulta vedendosi davanti uno di quei ragazzi che anni fa chiamava-mo “vu cumprà”, ma che non ha nulla da vendere: volto scuro, parlata strana e quasi incomprensibile, forse odore di sudore e rassegnazione, la ragazza chiude la porta di scatto, impaurita.
Primo piano: il papà si alza da una sedia della cucina e chiede chi era; la figlia risponde, ancora un po’ turbata… Soggettiva: anche lui, il papà, parla in modo strano, mischia molto dialetto con un italiano incerto ma efficace: “Se femo tuti così stasera no‘l ga da magnar!” e va lesto a riaprire la porta di casa.
Esterno pianerottolo: c’è ancora il ragazzo che prova a suonare dai vicini con sempre meno speranza.
Il papà lo richiama indietro e con sollecitudine gli mette in mano qualche soldo con un sorriso di scusa, non vedo quanto, non è importante per-ché l’altro sorride, incrocia lo sguardo e ringrazia.
Io resto lì, sorpreso e colpito: la scena non è recitata a beneficio di me, ospite casuale, penso a quel canto che ogni tanto si fa in chiesa: “Se Cristo bussa alla tua porta”.
Pochi fotogrammi che rimangono nella memoria per sempre: per il gesto, per l’insegna-mento, per l’uomo che ora si avvicina ad incontrarTi.

Paolo O.

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