di Roberto Petrasso

Quando vedo dei prodotti ufficiali Netflix con dei nomi famosi nel cast ho sempre un brivido lungo la schiena. Sarà perché ho l’impressione che spesso sia una mossa fatta solo per rattoppare delle evidenti carenze nella trama, oppure per fare del semplice clickbait. Prendete The Irishman ad esempio: cast fenomenale, prodotto direi piuttosto mediocre. The Old Guard: voleva essere la trasposizione di un fumetto famoso, senza Charlize Theron come protagonista non vale nemmeno il trailer. Sono tutte opinioni personali, sia chiaro, ma capirete che quando mi trovo a leggere Emma Stone e Jonah Hill come nomi principali del cast di Maniac, ho dei seri brividi. Eppure, con mio grande stupore, questa miniserie è stata in grado di smentirmi. Le grandi doti recitative dei due protagonisti non servono a tappare i buchi, servono a rendere ancora più efficaci le idee messe in scena dal regista Cary Fukunaga, che, per intenderci, ha avuto delle grandi idee.

In una New York piuttosto strana, in cui il setting futuristico è permeato da tecnologia analogica con uno stile vintage, i nostri protagonisti, Annie Landsberg e Owen Milgrim, si iscrivono ad un test di sperimentazione farmacologica. Annie (Emma Stone) è una ragazza alienata in sé stessa, troppo scossa dalla perdita della sorella, si iscrive al test perché è in realtà assuefatta dai farmaci sperimentali dell’azienda. Owen (Jonah Hill) è invece il figlio minore di una ricca e potente famiglia. Affetto da schizofrenia, cerca di fuggire dalla famiglia che lo ostracizza, nel tentativo di trovare un rimedio alla sua condizione mentale. E questo è proprio quello che la Neberdine Pharmaceutical Biotech promette come obbiettivo dei suoi test: creare una medicina in grado di risolvere i problemi della mente. In grado di rendere obsoleti psicoterapeuti e colleghi. Il tutto supervisionato da un supercomputer in stile HAL 9000 di 2001 Odissea nello spazio.

Se tutti questi vi sembrano gli ingredienti per una serie drammatica e terribilmente noiosa, beh, ora arriva il twist. Durante la sperimentazione ogni farmaco permette ai soggetti di rivivere e rielaborare in modo diverso i traumi che li tormentano. Annie e Owen si ritroveranno collegati in molteplici universi fittizi che avranno un doppio scopo: in primo luogo, metterli di fronte ai propri problemi e superarli; ma dall’altra parte, dà spazio ai due attori di dimostrare le loro abilità mettendo in scena personaggi diversi ogni episodio: in uno dei vari costrutti Owen è parte di una famiglia mafiosa; in un altro Annie è un elfo in un ambientazione fantasy; in un altro ancora, i due sono coinvolti nel rapimento di un lemure. Insomma, nell’arco delle sue dieci puntate si varia da un genere all’altro, senza mai perdere di vista quel tema di fondo dato dai disturbi mentali dei due protagonisti, ma senza nemmeno renderlo così importante da drammatizzare la narrazione. Il punto di questa serie, infatti, non è evidenziare le realtà legate alle malattie mentali, quanto invece mettere in luce, a modo suo, le verità di fondo che le riguardano, cioè come queste isolino le persone e giochino brutti scherzi con le loro menti. Per quanto ci sia effettivamente molto da leggere tra le righe, la serie si mantiene sempre su una lunghezza d’onda quasi comica, dettata soprattutto dal passaggio da uno stile all’altro (caratterizzati tra le altre cose da capigliature piuttosto stravaganti). Per chi fosse poi effettivamente interessato al lato psicologico della serie, sarà contento nel notare come nei vari universi che si vanno a creare, ogni personaggio ha un ruolo diverso a seconda di come viene visto dal protagonista nel mondo reale. Un dettaglio, chiaro, ma è un semplice esempio che fa capire quanto la sceneggiatura non sia fatta a caso.

Tutta questa alternanza di stili, ma soprattutto il parlare in modo non sempre diretto di temi di una certa serietà, rende difficile collocare Maniac all’interno di una categoria. Il termine secondo me più appropriato è dramedy: drama + commedia (termine gentilmente preso in prestito da un altro articolo, non mi assumo nessuna licenza poetica). La serie, autoconclusiva nelle sue dieci puntate, è disponibile su Netflix, ma, se cercate su internet, potreste anche finire nell’imbattervi nell’omonima serie norvegese da cui Netflix ha preso ampiamente spunto.

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