Perché ho bisogno di celebrare con voi l’eucarestia

Torneremo a celebrare l’eucarestia festiva e feriale nelle nostre chiese. Ma la gente tornerà a messa? Cosa ha voluto dire per la nostra comunità due mesi e mezzo di digiuno eucaristico? In questi ultimi giorni l’intervento della conferenza episcopale italiana in reazione alla presentazione della “fase 2” del presidente Conte ha suscitato reazioni e polemiche, dentro e fuori la Chiesa. Ho letto diversi interventi infastiditi dai toni e dai modi in cui è stata posta la questione, ritenendo ingiustificata tale presa di posizione dei vescovi. C’è chi ha preferito la chiesa che condivide le limitazioni e le fatiche di tutto il popolo piuttosto che la chiesa che rivendica attenzione e considerazione alle sue esigenze.  Ma quanto ci ferisce non celebrare l’eucarestia? Perché ne abbiamo bisogno?

Nessuna strumentalizzazione

Vorrei poter parlare della possibilità di celebrare l’eucarestia con il popolo senza strumentalizzazioni politiche. Il fatto che questo tema sia usato nel gioco politico italiano è disgustoso, ma questo non credo debba condizionare la nostra riflessione e la nostra libertà di espressione. Vorrei poter parlare al di fuori delle categorie politiche di “destra” o di “sinistra”, o della categorie più ecclesiali di “conservatori” o “progressisti”. Si può parlare della messa senza essere etichettati?

Nessun privilegio

È stato detto che rivendicare la possibilità di celebrare sia una richiesta che si muove nell’ambito di privilegi e di potere ecclesiale, che è meglio condividere con tutto il popolo le sofferenze di una faticosa limitazione alle libertà personali  piuttosto che apparire la chiesa dei privilegi, delle corsie preferenziali. Ma è davvero corretto pensare che sia un privilegio celebrare l’eucarestia? E’ un privilegio o una reale necessità? Dove la chiesa è perseguitata potremmo accusare le comunità che celebrano in clandestinità di cercare privilegi? Certo in Italia i cristiani non sono perseguitati e non si può dire che è compromessa la libertà di culto con questi provvedimenti che mantengono il carattere emergenziale, ma credo si possa denunciare la poca considerazione per le necessità spirituali della gente, anche dei cristiani. Capisco l’eccezionalità della situazione, ma non è la prima volta che l’umanità attraversa una crisi mondiale, e nelle precedenti pandemie, nei periodi di  guerra non mi sembra siano stati adottati provvedimenti di questo tipo. Possiamo dire almeno  che questa è una limitazione che tocca la libertà di coscienza delle persone, che ci sono libertà e libertà, e che merita attenzione? Denunciare indifferenza di fronte a una necessità profonda  non è chiedere un privilegio.

Regole chiare valide per tutti

Credo però che il tema dei privilegi sia una inevitabile conseguenza di una impostazione scorretta. Nel momento in cui chi ha la responsabilità delle decisioni entra nel merito di ciò che si può o non si può fare, di ciò che merita o non merita attenzione si finisce per dividere scontenti e accontentati,  privilegiati e penalizzati. Non sarebbe più corretto che si dicesse quali sono le regole prudenziali per evitare il diffondersi del virus e che ognuno provi ad applicarle nel proprio contesto di vita, nel proprio lavoro, nei campi di propria responsabilità. Ed è qui che nasce il disagio e l’ingiustizia. Perché il panettiere sì e il pasticciere no? Perché i supermercati sì ma i negozi no, perché posso comperare le sigarette e non le scarpe? Perché sul bus in 40 mq possono entrare in 10 mentre in un negozio 1 per volta? Non mi pare che si chiedano privilegi, piuttosto regole chiare che valgono per tutti. Capisco che ci possano essere deroghe dove si accetta un rischio maggiore di fronte a una esigenza maggiore. Ritengo per esempio una vera crudeltà far morire le persone da sole per cui ritengo che la visita ai malati soprattutto quando gravi meriti una deroga alle regole che non escluda prudenza e precauzioni. Ma nelle nostre chiese non vedo difficoltà a mantenere le distanze di sicurezza nelle messe feriali: perché non si potevano celebrare? Per le messe festive nel momento in cui i parametri sono chiari diventa possibile organizzarsi e questo vorrà dire forse moltiplicare le celebrazioni, trovare un modo per regolare gli afflussi, celebrare in spazi aperti e così via. Chi ha l’autorità deve far rispettare i parametri, non chiedere che entrino in 15 persone per funerale in chiese di metratura sterminata tanto quanto in una chiesetta di borgata! E’ normale che l’autorità civile ci spieghi come dobbiamo dare la comunione nella celebrazione eucaristica?

Non ammalarsi non è l’unica cosa che conta

Ancora un punto vorrei chiarire come premessa: credo la riflessione sulla necessità di celebrare vada posta nel quadro del tempo di convivenza con il virus (in attesta del auspicato vaccino). Dopo due mesi di fase emergenziale (fase 1), si parla di fase prudenziale di contenimento del virus (fase 2). Ritengo che non sia mai corretto assolutizzare un unico principio interpretativo tanto più nella lettura di una situazione complessa e confusa come quella generata dal Covid. Purtroppo è stato fatto nella fase 1 sacrificando all’emergenza sanitaria ogni attenzione di altri tipo, sociale, economica ecc, ma certamente non si può continuare oltre a porre come unico valore la necessità che non ci sia contagio e che la gente non muoia.

Qui devo spiegare perché non voglio passare per cinico o per insensibile di fronte al dramma della morte degli anziani, dei nostri cari. Bisogna spiegare perché è due mesi che se si prova ad allargare la riflessione vieni tacitato con i numeri dei decessi, foto di casse da morto, i blindati di Bergamo e via dicendo. Non voglio sottovalutare la tragedia umana e i numeri importanti delle morti da Covid. Non nego l’emergenza, ma vorrei che si prendesse in considerazione anche ciò che il lockdown ha generato come effetto secondario: i danni nei bambini /ragazzi privati della scuola, nelle famiglie più fragili, la distrazione da molti problemi che sono stati improvvisamente cancellati come la violenza sulle donne, la violenza domestica; fanno problema  le persone che hanno perso o perderanno il lavoro … ma soprattutto vorrei citare i molti anziani che abbiamo “spento alla vita“ chiudendoli in casa, rompendo il tram tram delle loro abitudini di vita; si sa che quando un anziano si ritira non avrà più le energie per recuperare le posizioni perdute: quanti sapranno ripartire? Che cosa darà loro lo slancio per superare la paura? Per farli alzare dal divano? Nella conta dei morti il numero dei decessi da Covid è sicuramente eccedente rispetto ai numeri dichiarati, ma in quei numeri ci sono anche i morti di solitudine: quanti si sono lasciati morire semplicemente perché hanno perso la motivazione per vivere? e quanto lunga sarà l’onda dei morti perché arresi? per quanti mesi avremo questo strascico di morte nelle nostre comunità? Siamo sicuri che la cura non abbia fatto più danni della malattia? La lettura dogmatica del problema sanitario dimentica che la morte fa parte della vita; non piace lo sappiamo, è uno scandalo, ma dobbiamo ammettere che si può morire. È emblematico il caso delle RSA dove, casi limite, gli anziani possono essere abbandonati in struttura, ma non possono morire.  Sono morti di Covid o sono morti perché hanno perso quel sottile legame con la vita che passava attraverso dei volti, delle mani delle persone che si prendevano cura di loro, improvvisamente mascherati, inguantate; dei figli improvvisamente spariti. Per quanti il distanziamento sociale è stato letale? finita la prossimità è finita la vita “per vivere così preferisco morire”. Assolutizzare il principio “non si deve morire” rischia di misurare la vita solo con un criterio quantitativo: ma al di sotto di un certo livello qualitativo la vita perde di senso. Inoltre quando si estremizza si apre alle distorsioni, per cui oggi fioccano le denunce dei parenti che avevano abbandonato la nonna ultranovantenne in struttura, ma ora ne sfruttano la morte (perché a 97 anni non si può morire!) cercando un risarcimento. Non vorrei che la prudenza politica fosse influenzata dal clima da regolamento di conti attraverso la magistratura che anche questa volta si è già scatenato sotto i nostri occhi. Gli eroi di ieri sono già diventati i bersagli di oggi.

In una situazione complessa non esistono soluzioni facili o senza sacrifici, ma proprio per questo penso che anche di fronte a un emergenza sanitaria vada considerato l’uomo nella sua interezza, non solo dal punto di vista della salute fisica. Tanto più nella fase 2, perché se all’inizio della emergenza sanitaria il dramma era che un numero di malati esorbitante non avrebbero potuto ricever le cure necessarie, ora non dovrebbe più essere così. Essere contagiati (in assenza di vaccino) ed eventualmente ammalarsi (per la maggioranza questo non avviene), non ha prognosi drammatica se c’è una diagnosi precoce e se si possono ricever cure adeguate, perlomeno non più che altre malattie le cui morti suscitano meno attenzione da parte dell’opinione pubblica. Penso quindi legittimo chiedere che nella fase 2 senza abbandonare la prudenza si tenga conto dell’uomo nella sua pienezza e che abbiano cittadinanza nella riflessione la possibilità di vivere la fede cristiana celebrando i sacramenti.

E qui torno alla domanda di partenza: quanto ci ferisce non celebrare l’eucarestia?

Vorrei rispondere evitando il contenzioso teologico ma partendo dalla mia esperienza di fede e dal mio punto di osservazione, dalla mia sensibilità pastorale.

Io non ho un rapporto diretto con Dio; amo il silenzio, amo la preghiera notturna, ma la mia relazione con Dio passa sempre attraverso la mediazione umana. Credo nel Dio dell’incarnazione che si è fatto uomo, credo nel Figlio dell’uomo che ha manifestato l’amore di Dio, amore che va oltre, amore senza misura, amore fino alla fine; l’ha reso visibile, a me fragile e incredulo Tommaso, perché me lo ha fatto toccare. Riesco ad avere una relazione con Dio perché Dio parla l’umano e perché la sua presenza nella mia vita mi fa uomo. Ho bisogno di nutrire la mia vita con questo amore, mi tiene in piedi, ne ho bisogno tutti i giorni. E se da un lato è dono che conosce la mia solitudine, dono per me di Colui che conosce le sfumature della mia persona, il mio cuore, nello stesso tempo sento che è dono per tutta l’umanità, dono personale, ma non privato. È dono che mi arriva solo e soltanto attraverso un mediazione umana. Il Vangelo certo, la Parola che non solo è stata scritta da uomini, ma che è masticata, vissuta e ripetuta da uomini: sento il profumo di Dio quando la Parola è passata attraverso la vita di chi da essa si è lasciato penetrare. In questi giorni di quarantena sono stati molti gli interventi, i commenti, le liturgie della Parola: a volte culturalmente affascinanti, interventi pieni di sapere, ma confesso molte volte ho provato il sapore della carta non la dolcezza in bocca e le viscere infuocate che promette la parola di Dio. Mi manca l’incontro con l’uomo che annuncia la Parola e lo fa con la vita perché è passata dalla sua vita. Confesso che sento più il cuore di chi parla nello scritto che nello streaming, preferisco telefonare piuttosto che le video chiamare: sarò vecchio, sarà abitudine, ma lo schermo trasmette un’idea di esibizione fastidiosa e mi scatta una reazione di insofferenza di fronte a chi recita la sua fede, a chi si trucca da sapiente o da profeta. Ho bisogno di sentire l’uomo senza maschere e senza trucchi nella sua fragile e ferita nudità: lì Dio mi appare nel suo commovente splendore di bellezza.

Il linguaggio evocativo dei segni di cui si nutre la liturgia, la sua forza affettiva, la capacità a mettere in comunicazione, a stabilire contatto, la forza di penetrare la vita, di nutrire dentro, tutto questo viene a mancare nella sospensione delle celebrazioni eucaristiche e delle celebrazioni dei sacramenti. E non manca solo il segno ma gli uomini che in esso sono coinvolti, la comunità che si riunisce e che l’eucarestia rende chiesa. Sono di nuovo segni umani che passano attraverso la vita di uomini arrivando fino alla mia. È la comunione umana che fa da cassa di risonanza per la pienezza travolgente della comunione divina. Quando celebro con la comunità sento la vita delle persone che sono con me intorno all’altare, di molte sofferenze  e ferite sono a conoscenza, la loro presenza sollecita la mia fede.  Mi presento all’altare con mio fratello, come chiede il Vangelo, anche con quello da cui mi sento ferito, con cui faccio fatica a mettermi d’accordo. E’ questo legame con gli uomini, questa mediazione umana della grazia di Cristo che mi ha tenuto dentro una chiesa che in questi anni mi ha fatto soffrire. I discepoli di Emmaus che hanno corso la tentazione di camminare da soli sono stati rimandati in comunità. Certo non voglio dire che la qualità dell’umano intorno a me e dentro di me determina il valore dell’eucarestia, il segno può essere molto povero, a partire da me prete peccatore, la comunità può essere fredda, misera, sconosciuta … la fragile argilla può contenere comunque il tesoro. Ma qualcosa di miseramente e profondamente umano diventa segno dell’amore di quel Dio che a quel uomo povero ha donato la vita. Senza la comunità, senza gli uomini, Dio diventa muto.

Io non posso celebrare da solo, non posso celebrare con una comunità virtuale. La messa non può essere un privilegio dei preti. E questo sì che mi pare essere un privilegio. Spero che chi ha esaltato il valore del digiuno eucaristico in questo tempo e l’importanza di condividere con il popolo la condizione di limite abbia coerentemente osservato il digiuno e non abbia celebrato l’eucarestia. Lo schema: io celebro e voi guardate in streaming, ma vi assicuro che ho pregato per voi, vi confesso mi scandalizza, mi sembra di replicare la comunità di Corinto riunita per la cena, dove qualcuno mangiava e qualcuno guardava.

Non si può celebrare senza la comunità, e non possiamo chiedere a tutti di rinunciare ancora al segno dell’amore incarnato, dell’amore che salva, al Vangelo annunciato in un ascolto condiviso. Abbiamo bisogno dei fratelli per poter incontrare Dio, la comunità si deve riunire se non si vuole per preservare i fratelli dal contagio farli morire di fame.  Non basta la lettura o lo studio della  Parola o la preghiera individuale. Non rischiamo in questo modo di incentivare una fede individualista, emozionale o intellettuale a seconda dei gusti? Senza la relazione e la mediazione umana, senza l’incontro con l’uomo il vangelo resta muto, la fede si spegne, il cuore si gela,  Dio diventa il mio Dio, quello a mia immagine e somiglianza. E il momento più intenso di relazione e di comunione è l’eucarestia.

Senza comunione si rischiano divisioni, spaccature fra la chiesa dei sapienti, che si riempie di Parola, la chiesa della testa,  la chiesa della volontà, del volontariato, quella del cuore,  della carità, quella delle emozioni, amplificate da video lacrimevoli che hanno riempito i nostri gruppi WhatsApp. Riflessioni, emozioni, ironie, immagini, ma questo ci basta? Ci unisce? Senza la comunione la comunità va a pezzi, nascono le divisioni e molte persone si perdono: il virus ha aperto la forbice tra ricchi e poveri, tra sani e malati, tra solidi e fragili, e anche tra chi è maturo nella fede e chi è più fragile. Non possiamo rischiare un cristianesimo elitario. Chi abbiamo perduto non sono gli indifferenti, ma la fascia di mezzo, quelli che credono a fatica, che hanno iniziato un cammino, e che nel muovere i passi hanno bisogno dell’appoggio, del supporto, della testimonianza della comunità. Abbiamo perso i semplici, gli anziani con le loro abitudini, i ragazzi che hanno bisogno del gruppo, degli amici, della comunità. C’è chi dice che in questo tempo abbiamo avuto l’occasione di verificare il carisma sacerdotale del popolo di Dio, per il quale ogni uomo può rivolgersi al Signore. Certo: ma personalmente non significa individualmente, non senza la comunione, e l’eucarestia è l’esperienza umana di comunione con Dio e con i fratelli per eccellenza. Non c’è solo la messa, ma non senza la messa. L’unico sacrificio del Cristo raccoglie la vita offerta anche da noi che di quella condivisione ci nutriamo e da quella condivisione ripartiamo per portare l’amore ricevuto nel l’incontro quotidiano con i fratelli.  Privarsene è una grande ferita che ricade sui più fragili.

Nel momento in cui concludo queste mie riflessioni annunciano la possibilità di tornare a celebrare. Con le maschere, senza toccarci, con tante precauzioni. Sarà faticoso, ma è già qualcosa. Le maschere del resto le usiamo da tempo, ben più che le mascherine. Nascondono le ferite, un dito di trucco per nascondere il nostro vero volto. Mi viene in mente la corte dei miracoli invitata al banchetto di nozze del figlio. Ciechi, zoppi, sordi, questa umanità fasciata che spesso si trascina è la mia comunità, sono gli uomini che mi parlano di Dio. Inviterò con tutte le mie forze a venire a messa, a tornare in comunità, a venire alla festa.

Don Paolo

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