Dall’Ucraina a Grugliasco

A cura della Redazione

Fuggire all’improvviso dalla guerra e trovarsi senza nulla in un Paese straniero: poche parole che contengono tutte le sofferenze, le angosce, le preoccupazioni di chi, nei mesi scorsi, dall’Ucraina ha raggiunto l’Italia ed è arrivato anche qui nella nostra città.

Per il momento sono 29 le persone giunte all’inizio di marzo e seguite dalla Protezione Civile e dal Comune di Grugliasco.

La città intera non si è tirata indietro, si è subito attivata in tutti i modi per aiutare ad accogliere.

In prima battuta, l’Amministrazione comunale, che ha messo in campo tutte le risorse possibili per risolvere gli innumerevoli e spesso imprevedibili problemi: in primo luogo la sistemazione in alloggio e il cibo, ma anche la regolarizzazione dei documenti, le problematiche sanitarie, l’inserimento a scuola per i piccoli, il corso di italiano per gli adulti…

Accanto al Comune, commercianti, artigiani, imprenditori, associazioni e semplici cittadini, con iniziative di ogni genere, hanno offerto e offrono supporto in servizi e donazioni.

Accogliere, però, non significa solo fornire i beni essenziali, ma anche accompagnare, essere presenti in questo difficilissimo momento della vita di queste persone. Per questo il Comune aveva chiesto la disponibilità di volontari che stessero accanto in modo stabile ai profughi. Le nostre comunità hanno risposto: quattro tutor stanno seguendo quasi quotidianamente altrettante famiglie ucraine. Abbiamo chiesto di parlare di loro e della loro esperienza.

Olga è scappata da sola con i due figli, di cui uno diciassettenne: la sua paura, tra tutte le altre, era che appena diventato maggiorenne sarebbe stato arruolato.

Olena è fuggita a piedi con il figlio, con i colpi di fucile dietro di loro; dopo un massacrante viaggio in treno, si è sentita veramente in salvo solo dopo avere raggiunto la Polonia.

Nadia è scappata con i tre figli e un nipote: non avrebbe mai pensato di dover lasciare la sua città, ma sta cercando di trovare qualcosa di positivo anche in quest’esperienza.

E poi ci sono ancora Xenia, che ha dovuto lasciare il marito poco dopo il matrimonio e ora è ospitata in famiglia; Olga e Alexander, lei docente universitaria e lui ingegnere, qui con la figlia Nastya e il nipotino… Storie tutte simili e tutte diverse, che racchiudono un dramma immenso per ciascuno di loro.

Ma cosa significa in concreto stare vicino? Significa semplicemente esserci, stare accanto a partire dalle cose più banali: accompagnare al mercato, far vedere dove sono i negozi, i parchi giochi, le farmacie, accompagnare dal medico, a fare il vaccino… farsi portavoce con il Comune per piccole o grandi necessità che sopravvengono. Ma è evidente che è la relazione l’aspetto più importante. Occorre saper ascoltare con attenzione, cercando un equilibrio tra il soddisfare i bisogni e il rispetto della dignità. Colpisce il loro riserbo, la loro “paura di disturbare”. Colpisce il linguaggio che va ben oltre le parole: senza conoscere una parola di ucraino, gli occhi pieni di lacrime fanno capire che stanno parlando del loro Paese…

Colpisce la gratitudine: Olga dice che, quando fa lezione in DAD ai suoi studenti a Odessa, non dimentica mai di dire quanto sia stata ben accolta in Italia.

Altro compito del tutor è di non lasciare sole le famiglie, di cercare di inserirle, per quanto possibile, nel tessuto della comunità in modo che non si sentano isolate. Diventa quindi fondamentale sentirsi spesso, anche solo per chiedere “Come state? Facciamo un giro al parco? Stasera andiamo insieme al concerto?”. Ma generalmente il mezzo migliore per sciogliere il ghiaccio è una cena con amici, una scampagnata nei dintorni, un giro a Torino.

Quali sono le motivazioni che hanno spinto i tutor a prendere questo impegno? Una è la più semplice, la risposta alla domanda che si sono fatti in tanti: ma se fosse successo a noi, che cosa avremmo voluto trovare in un Paese completamente sconosciuto? Vorremmo sì degli aiuti, ma anche dei volti amici.

Dal punto di vista cristiano, c’è chi ha fatto propria la parabola del buon samaritano: non ci si può girare dall’altra parte di fronte a questa tragedia, bisogna mettersi in gioco.

Chi ha messo a disposizione la casa o ha accolto qualcuno nella propria abitazione l’ha visto come un gesto naturale, è stato spontaneo aprire la porta senza farsi troppi problemi, perché l’accoglienza non è solamente uno spazio fisico, ma uno spazio del cuore.

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