Pasqua di Risurrezione

Omelia di Pasqua don Paolo

Carissimi amici,

Ho pensato di scrivere questa riflessione in occasione della settimana Santa e della Pasqua per aiutare a vivere questi giorni  e soprattutto per invitare a guardare oltre a questi giorni. In quaresima ho pensato che fosse bene conservare il silenzio, per non aggiungere le mie alle molte, forse troppe parole, messaggi, video che hanno circolato sui social. Per non essere affrettato, per cercare di portare nella preghiera. Ora vi consegno questo lungo testo, vedete ho recuperato, sapendo che oggi  non abbiamo la pazienza di leggere a lungo, che la comunicazione deve essere veloce e impressionistica  per essere efficace. Scusatemi, vorrei aiutare a vivere più che a emozionare, a guardarsi dentro più che a giudicare

Celebrare la risurrezione in questo clima di morte, nella strage di questi giorni, ha un sapore tutto particolare. Amaro per l’impossibilità di vivere la veglia pasquale, la celebrazione più intensa dell’anno, per una pasqua di risurrezione che tarda ad arrivare, che avremmo voluto coincidesse con la riapertura dal soffocante blocco di questi giorni, con il ritorno alla vita normale (quanto ci manca la vita normale!). Dolce perché squarcia il buio della morte, perché annuncia che il masso che incombe sulla nostra vita, la pietra che chiude la tomba è stata spostata, e anche se non vediamo tutto chiaro si apre un passaggio che profuma di speranza: esiste una via di uscita.

Dopo una quaresima surreale, una pasqua senza veglia, senza eucarestia, senza comunità dice che il digiuno non è concluso. Quanto ancora? Quando allora ci ritroveremo? Presto spero, ma suggerisco di tenersi impegnati per una data:  Pentecoste è il giorno in cui si conclude il tempo pasquale; la vigilia, sabato 30 maggio vi propongo di celebrare insieme la Veglia di Pentecoste. Chissà che possa essere il giorno della pace, della luce.

Ma torniamo alla nostra quaresima; nei giorni della quarantena molti si sono rivolti al Signore chiedendo luce e guarigione. I gesti di preghiera di papa Francesco amplificati dai media hanno fatto il giro del mondo facendosi voce della supplica di tutta l’umanità: “tiraci fuori da questo incubo Signore”. Come è stato per il popolo di Israele nel deserto il serpente innalzato a cui si è rivolto per cercare salvezza, così sarà per noi in questi giorni la croce: guarderemo il figlio di Dio innalzato chiedendo di non farci morire, di non far morire i nostri amici.

Ma funziona? Le nostre comunità potranno uscire indenni da questo tempo malvagio? San Rocco compirà il miracolo ancora una volta per Grugliasco? Sappiamo che non è andata così, e non andrà così. Conteremo i nostri feriti, piangeremo i nostri morti. Questi giorni di incredibile paura e di inaspettata debolezza (l’avreste creduto possibile nel XXI secolo?) hanno fatto emergere domande, speranze, aspettative che hanno cercato in Dio una risposta. E nello stesso tempo hanno denunciato l’impotenza di Dio. E di un Dio impotente cosa ce ne facciamo?

Con qualche amico si sottolineava che questa è stata la prima pandemia vissuta da un mondo ateo, perché di fronte a questi eventi nel corso almeno della nostra storia europea la risposta è stata sempre rifugiarsi nell’aiuto di Dio: questa volta le liturgie di conversione per chiedere la guarigione sono state vietate, e l’esigenze spirituali sono passate in secondo piano. Non discuto l’opportunità dei provvedimenti,  constato solo come molta parte del mondo ritenga oggi Dio inutile e impotente. E in fondo é stato proprio il cristianesimo  a puntare sull’uomo, a proclamare che Dio ha creduto alla salvezza dell’uomo; a proclamare un Dio che non invade dall’alto la nostra libertà, ma che dal di dentro trasforma il cammino dell’uomo in un cammino di salvezza. E allora non ci deve stupire la disillusione per i voti alla Madonna e ai santi (senza contare le strumentalizzazioni politiche), il fastidio che qualcuno prova di fronte all’attesa del miracolo, la convinzione  che dobbiamo cavarcela da soli.

In questa tempesta noi ci troveremo a vivere il venerdì santo , a festeggiare la Pasqua. Già, pensateci, proprio  in questi giorni celebreremo  l’impotenza di Dio. La croce è segno potente di un Dio impotente, uomo come noi di fronte alla morte. E’ venuto per salvarci e invece è morto. Fallimento?

Torniamo all’angoscia del Getsemani, quest’anno non è difficile sintonizzarci con quel sentimento. “Non la mia ma la tua volontà”, sono le parole che Gesù rivolge al Padre. Credo che in quelle parole ci sia la chiave della lotta contro la morte e il presupposto della salvezza. Gesù è l’amore di Dio incarnato, cioè in lui diventa visibile agli occhi degli uomini il modo con cui Dio ama. Amare è dono totale di sé, tra me e te se c’è egoismo penso a me, se c’è amore penso a te. Non io, ma tu. Dio per amore non ha fatto qualcosa per l’uomo, ma si è fatto uomo (non io ma tu). Farsi colui che ami, nell’ora della morte dell’uomo significa morire; significa sperimentare l’impotenza di fronte alla morte, la resa di ogni progetto di salvezza. Nessun eroismo, perché in fondo nell’eroe che sacrifica la vita nell’atto estremo c’è ancora il raggiungimento vittorioso dell’obbiettivo (anche se sono morto ho vinto io). No, Gesù ha rinunciato per amore (non io ma tu) alla sua affermazione. Non c’è nessun eroismo, solo impotenza, angosciato come noi di fronte alla morte, impotente come noi nel salvare l’umanità che amiamo (quanti in questi giorni avrebbero donato la vita per salvare qualcuno!). La croce non è la bandiera dell’eroe, ma uno spettacolo d’amore. Però Gesù sulla croce pur condividendo con noi la distanza da Dio e il sentimento d’abbandono  (perché ci hai fatto questo Signore, perché non ci tiri fuori da questa epidemia?), non ha perso il suo rapporto con il Padre, non ha smesso di amare e avere fiducia nel Tu che è suo Padre: non io, ma tu, non la mia, ma la tua volontà, non il mio progetto di salvezza, ma il tuo. Io non posso salvare il mio fratello uomo, ma tu sì. “La tua volontà è una volontà di vita Padre, le tue mani sono le mani che hanno plasmato l’uomo , il tuo soffio è amore fertile. Scenda il tuo soffio d’amore su questa morte e si compia la tua volontà. So che in questa morte, in ogni morte non cesserà il Tuo amore”.

La croce è il trionfo dell’impotenza umana di fronte alla morte, ma nello stesso tempo il trionfo dell’amore perché il Figlio dell’Uomo, da uomo ha insegnato ad amare anche nella morte, anche la morte. E la risposta del Padre è stata amore che dà vita anche nella morte. La morte non ha spento l’amore, la morte non ha spento la vita. La potenza dell’amore nell’impotenza della morte.

Questo è l’annuncio di Pasqua, questo è l’unico modo di uscire da ogni impotenza, da ogni angoscia, da ogni tristezza: l’amore, (non io ma tu).

In questi giorni ci è stato ripetuto in maniera dogmatica che l’unica salvezza di fronte al virus è stare a casa. Non penso: l’unica salvezza è l’amore, non io ma tu.

Questo in molti casi vuol dire che era ed è stato giusto e forse lo sarà ancora stare a casa, non sono qui per aprire una discussione sui decreti governativi. Ma non posso non dire a dei cristiani che la salvezza non è “salvare la pelle,” sia che sia la tua, sia che sia la mia. E lo dico non a cuor leggero, sapendo che il coronavirus è pericoloso anche per i miei parrocchiani, i miei amici, i miei familiari e alcuni di loro sono medici,  i miei genitori anziani,  i miei amici e confratelli preti, per don Lorenzo, per don Carlo che è anziano e anche per me.

La salvezza cristiana è l’amore, e amare deve essere il criterio della nostra vita nella luce della Pasqua. Per amore devo restare a casa per non contagiare. Ma non posso non vedere anche altre urgenze, anche altre sofferenze che mi devono provocare. E devo chiedere al Signore di aprirmi gli occhi.

Ci sono i più deboli. Chiudersi in casa per te che la casa ce l’hai e hai pure una famiglia, è relativamente facile, ma non è così per tutti; e non penso solo ai senza fissa dimora e i nomadi, gli stranieri immigrati, ma anche alle tante persone sole,  ai tanti anziani vedovi/e, a chi è solo e vive da sempre male, a chi non ha rete e non ha aiuti.  Sicuri che la solitudine non ammazzi come il virus? Io sto a casa mia può diventare un alibi per un grande egoismo.

Ci sono le famiglie separate, qualcuno non ha più potuto vedere genitori, figli. Le famiglie solide hanno ritrovato il tempo per curarsi a vicenda, ma le famiglie fragili? Statisticamente le separazioni familiari avvengono nella vacanze di Natale e in quelle estive. Dopo tutto questo tempo di clausura forzata quante famiglie esploderanno, e la sofferenza dei figli chi la cura? Sapete che nei centri violenza per le donne sono spariti tutti ? Non gli operatori, le denuncie! Possibile che il virus abbia curato la protervia maschile? E gli abusi sui minori? Tutto finito? Cosa sta succedendo nelle nostre case  blindate? Ognuno a casa sua a fare i fatti propri? é giusto?

E chi si ritroverà senza un lavoro?  Quanta gente è rimasta senza stipendio in questi mesi?  E chi aveva un lavoro precario? So bene che il discorso è molto complesso, ma  siamo consapevoli che saremo tutti più poveri e che sarà dura tornare ad uno standard di vita accettabile? Non è che la preoccupazione per la salvezza si trasforma poi in “si salvi chi può”?

Non possiamo pensare che dal virus ci sveglieremo magicamente migliori di prima. E’ pittoresco vedere la gente che canta dai balconi, per certi aspetti commovente, ma abbiamo visto anche la gente gridare dai balconi a chi passava per strada preso per un untore senza ragione. Dopo la paura viene la rabbia non dimentichiamocelo, ed è più difficile da guarire. Il rischio è la resa dei conti! Abbiamo visto medici e infermieri spendersi fino all’estremo, ne abbiamo visto altri scappare dalle proprie responsabilità e imboscarsi. Quelli che oggi battono le mani al personale sanitario sono gli stessi che denunciavano un medico se il risultato di una cura non era quello aspettato: oggi gli applausi domani le inchieste? Quanto dovremo lavorare per ricostruire un tessuto sociale? Quanto dovremo penare per fare la pace? Le guerre dividono, il male è virale più del coronavirus. La gelosia, la menzogna. Quando riacquisteremo fiducia gli uni negli altri?

Vorrei spendere una parola anche sulla questione della libertà, credetemi non è una questione teorica, non è filosofia.  E’ evidente che un tempo si moriva per la libertà, ora per non morire si sacrifica la libertà. Questo ci dice che dobbiamo stare attenti ad assolutizzare i valori, ad affermazioni del tipo “adesso l’unica cosa che conta è salvare la vita” perché è strada più facile ma molto pericolosa. Mi fanno paura quanti in questi giorni hanno evocato l’efficienza cinese, l’ordine, guardando con invidia la loro disciplina, ma dimenticando che sono una dittatura; certo è più faticoso vivere in democrazia, la libertà è una conquista e ha un prezzo  di  pensiero e di partecipazione. Convincere e più difficile che costringere! Ma è una fatica a cui non vorrei rinunciare neanche in nome di un’urgenza (che sia chiaro non nego). Pensare con la propria testa, fare discernimento non è un opzional. Il dovere di cercare ciò che è bene per tutti, ciò che è vero, ciò che è giusto non è delegabile e questo non è anarchia, ma responsabilità. E’ pericoloso se educhiamo i nostri ragazzi solo all’obbedienza e non alla libertà e alla partecipazione.

Credo sia giusto in questi giorni avere delle preoccupazioni educative nei confronti dei ragazzi: li abbiamo chiusi in casa per proteggerli, giusto. Li abbiamo riempiti di playstation per sopportare la clausura (giusto?). Per fortuna le scuole, si sono attivate e attraverso le lezioni on-line (ma non tutte) e i compiti assegnati sui registri elettronici hanno fatto lavorare i ragazzi occupando loro anche le giornate (bene). Ma non abbiamo rinunciato un po’ troppo e troppo in fretta a educarli al coraggio di fare del bene per gli altri? Per noi cristiani donare la vita è essenziale. Non sono stato, non siamo stati troppo codardi? Me lo chiedo e vi confesso che questo dubbio mi tormenta. E non credo che possiamo risolverla dicendo che un conto è rischiare per me un conto è rischiare di infettare gli altri. Sì certo è vero, ma è anche tanto comodo. Tanto più che in questo caso i giovani, i ragazzi sembrano essere quelli che rischiano di meno di esser toccati dalle conseguenze del virus. E dico tutto questo non per guardare indietro, ma avanti. I giovani, i nostri ragazzi, credo debbano mettersi in prima linea appena sarà possibile e senza alibi,  nel darsi da fare per ricostruire le relazioni, il tessuto sociale, per aiutare chi farà fatica, per rimettere insieme i pezzi di un uomo andato in frantumi (purtroppo siamo stati profetici nel proporre il puzzle come segno quaresimale).

Se è l’eucarestia che fa la comunità non poter celebrare la domenica è una ferita profonda per l’esistenza della comunità stessa.  Certo che si poteva pregare a casa, che è stato possibile riscoprire la bellezza della preghiera in famiglia, ma realisticamente dobbiamo pensare che in tante famiglie questo non è avvenuto.  Per altro la chiesa spesso è necessaria come spazio di deserto, perché pregare in casa , nei nostri alloggi piccoli, con il disturbo continuo dei rumori quotidiani è impossibile. Dopo anni passati nella luce del Concilio Vaticano II a insistere sul tema del popolo di Dio, popolo sacerdotale, capace di rivolgersi al Signore, a insistere sulla  formazione del laicato, a dire che la messa non è l’unica forma di preghiera, dobbiamo constatare che bastano due mesi senza messa per far crollare tutto? Non credo, ma è difficile sentirsi popolo senza la messa domenicale come momento di riunione di tutta la comunità, come crogiuolo della settimana, come momento di ascolto della Parola, come nutrimento, come comunione con il Signore e con i fratelli. Non vorrei che in nostro cammino di fede avesse una deriva individualista. Qualcuno ha imparato a stare in piedi nella fede senza troppi sostegni, probabilmente proprio vedendo altri pregare, guidato dall’esperienza e dall’esempio di altri, del gruppo di riferimento. Quanti però sono per strada, quanti hanno appena iniziato il cammino. Non posso non pensare e pregare per questi nostri amici. E questo a partire dai bambini del catechismo: abbiamo detto a tutte le famiglie che sono i genitori i primi catechisti, sono certo che qualcuno ha provato a pregare con i figli, ma di nuovo, quanti lo avranno fatto? Sono stato io a chiedere alle catechiste di non mandare i compiti a  casa ai bambini perché dopo vent’anni passati a dire che il catechismo non è scuola di catechesi, ma esperienza  di vita, non si poteva usare i criteri scolastici per continuare il cammino. Ma in quante famiglie si sono vissute esperienze di fede in questi giorni? Ci sarà molto da lavorare anche nelle nostre comunità per riprendere un cammino, speriamo con maggior convinzione. E spero che il digiuno abbia fatto crescere in tutti il desiderio di partecipare alla messa domenicale, la sete di fare comunione, la consapevolezza della fortuna che abbiamo nel poter celebrare ogni domenica l’eucarestia.

Credo sia venuto il momento di concludere la mia lunga riflessione. Ci aspettano giorni difficili, non si risolverà tutto in un euforico abbraccio. La cura al virus attraverso la distanza sociale è stata molto dolorosa e molto pericolosa. Necessaria? Credo di sì, ma ora guardiamo avanti: certamente sarà necessario curare anche le lacerazioni che essa ha prodotto! E qui chiedo davvero a tutti il coraggio di farlo, vincendo ogni resistenza, ogni egoismo, ogni individualismo(!!!). Vi chiedo quattro cose:

  • Di pensare: abbiamo bisogno delle idee di tutti perché non è facile capire che cosa si debba fare, di che cosa ci sia bisogno. Dobbiamo aprire gli occhi e il cuore, ma ci vuole anche un po’ di intuizione e di intelligenza. Proviamo a far funzionare i consigli pastorali, a parlarne nei gruppi, con responsabilità. E proviamo a farlo fin da subito provando a  confrontare le idee comunicando on- line o sulla piattaforma che preferite. Per non essere lenti, per non essere spenti.
  • Di prepararci alla riconciliazione fra di noi. Sì io credo davvero che si debba fare la pace, è l’unico modo di uscire dalla devastazione di uno scenario di guerra come sono stati descritti questi giorni. Non importa chi aveva ragione. Ognuno si guardi dentro, ognuno cerchi di fare un passo verso i fratelli. La verità è necessaria per fare davvero la pace, ma ora è più necessario non farsi lacerare dal potere del male.
  • Di cercare il perdono di Dio. Credo sarà necessaria una liturgia penitenziale, ne avremo bisogno. Il male che ci ha infettato scaverà sensi di colpa e saranno solchi profondi; qualcuno si porterà dentro il dubbio e la colpa di avere contagiato qualcun altro, altri di non aver potuto accompagnare in ospedale i propri cari, di non aver salutato chi è morto, di non aver fatto abbastanza per gli altri, di essere scappati dalle proprie responsabilità, di aver perso tempo, di essere stati pigri, ignavi …. E l’elenco diventa lungo. Solo la misericordia di Dio ci può guarire.
  • Di impegnarsi a partecipare alla Veglia di Pentecoste: ovviamente se sarà possibile celebrarla. Se no troveremo un altro momento, ma io sento il bisogno di celebrare con voi la risurrezione di Cristo e il suo amore, che ci permette di guardare con occhi diversi la morte e il male, e di essere vivi anche nei giorni della paura.

Concludo con gli auguri e la benedizione. Quella che ho invocato tutti i giorni per le nostre comunità, per i nostri malati, per i nostri medici e infermieri, per chi ha lottato, per chi è caduto. Vi prego di abbracciare chi è in casa con voi, di farlo voi che potete, per chi in questi giorni ha dovuto rinunciare, per  chi per un motivo o per un altro è rimasto da solo in un letto, in una stanza. Datevi quel segno che avrei voluto darvi sull’altare la notte di Pasqua e profumatevi il volto perché si cancellino i segni del digiuno e della tristezza; sì fatevi belli nel giorno di Pasqua, fatelo perché è festa, per Dio , per la vostra famiglia, per voi; e con la liturgia cantate: Cristo è risorto dai morti, con la sua morte ha vinto la morte, ai morti ha ridonato la vita.

Con tutto il calore di cui sono capace,
Don Paolo

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