Seminando Speranza

Cinzia Bertolo

«La mia esperienza è stata vivere insieme alla comunità di pace di San José de Apartadó, in Colombia, e sono partito con Operazione Colomba, Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.
Si tratta di una comunità di famiglie di contadini che vive in un territorio fortemente segnato dalla violenza, dal narcotraffico e dalla presenza di gruppi armati molto aggressivi verso la popolazione, ma anche ricco di molte risorse come oro e minerali. Chi vive lì viene risucchiato dentro questo sistema, quindi sei costretto ad andartene oppure a collaborare con questo sistema di violenza e criminalità.
Quello che ho fatto è accompagnarli fisicamente, stare vicino a queste persone che per la scelta che hanno fatto rischiano di essere ammazzate. Mi ha colpito tanto come una comunità riesca a non piegarsi anche di fronte a una violenza molto dura. Questa gente ha vissuto l’uccisione di centinaia di persone, 300 dalla fine anni 90 in cui è nata la comunità, tra cui amici e familiari e nonostante questo è andata avanti. Hanno resistito perché si sono rifiutati di far parte di questa violenza e quindi ad esempio non coltivano cocaina, ma cacao, avocado, mais. Danno fastidio queste comunità perché è una zona dove c’è un uso molto aggressivo delle terre e loro lo impediscono.
Nello stare con loro ti chiedi dove trovino questa forza di resistere e se parli con loro ti dicono che la forza è la comunità e che i frutti magari li vedranno i loro figli.
Mi ha colpito la loro capacità di affidarsi e di essere un seme che morendo porta molto frutto, che germoglia nell’oscurità. Con queste persone ho trovato un Vangelo incarnato.
La cosa più difficile da accettare è che persone così, buone e umili, possano venire ammazzate, sai che c’è una grossa minaccia puntata sulla loro testa.
Quello che ti trasmettono non è che non ci sia la paura, ma che ci può essere un amore più grande della paura. Loro amano tantissimo i loro figli, uno potrebbe dire “ma in un contesto così come fai a crescere dei bambini?”. Il fatto di vedere che lì crescono bambini vuol dire che lì c’è la vita e questi sono segni di una vita più forte della morte e della paura.
Poco prima che partissi, Herman, responsabile della comunità, mi ha detto: “Grazie per aver camminato con noi, sappiamo che rischiamo tanto, ma è qualcosa su cui siamo disposti ad andare fino in fondo”. E la sua preoccupazione era se i regolamenti del volo consentissero di imbarcare della frutta, perché voleva regalarmi della frutta da portare in Italia.
La loro esperienza parla molto di cosa significhi donare la vita. Non è scontato che chi vive una sofferenza diventi migliore, perché la sofferenza ti può incattivire. Invece questa è gente che nella sofferenza ha creato qualcosa di diverso.
Loro hanno fatto della sofferenza un dono per le altre persone, credono che la violenza non possa essere l’ultima parola e che non ci sia situazione umana che non possa essere vissuta in piedi. Ricordo degli accompagnamenti nella foresta, anche con persone anziane e bambini, e proprio questi bambini mi guidavano: segno di una vita che non si arrende. È una resistenza che coinvolge tutti, tutti possono far parte di un cammino.
Io non credo che bisogna essere eroi per vivere una cosa del genere, il motivo che a me ha sempre spinto ad andare in certi luoghi sono le persone. Io non sento di averlo fatto per delle idee o degli ideali; se penso ad un motivo, penso ad un volto e questo vale per tante esperienze. Se penso al perché, mi vengono in mente dei volti e anche se penso a delle fatiche, penso a dei volti ed è quello che ti dà il coraggio, a me non interessa far qualcosa per principio. È facilissimo cadere nella celebrazione, uno fa le cose perché è speciale, e invece è la vita delle persone che ti fa venire la motivazione.
Per me diventa tutto fattibile nel momento in cui lo stai facendo per qualcuno. Camminare con questa gente è valso ogni singolo rischio che mi sono preso.
Quella della comunità di San Josè è un’esperienza radicale e nella sua radicalità è unica, ci sono tante altre comunità dove le persone accettano di coltivare la cocaina o essere conniventi con la delinquenza.
Ma è proprio l’essere comunità che li ha protetti, nessuno di loro da solo si sarebbe salvato.
È difficile trovare un’esperienza così totale, quando raccontano, parlano sempre di “noi”, mai di “io”.
Loro hanno un luogo al centro della comunità che è una specie di memoriale con i loculi ed è al centro perché la memoria di chi ha dato la vita è al centro della comunità. Il messaggio è: noi oggi siamo qui anche grazie al loro sacrificio. Brigida, una donna che ha perso la figlia, mi diceva: “Quello che è stato costruito con il cuore, niente può distruggerlo”. Mi sento piccolo di fronte a queste persone, mi sento di aver avuto un onore a stare con queste persone che hanno condiviso il loro dolore con me.
Sapere che ci sono persone che vivono così, mi dà tanta motivazione anche qui, nell’impegno in oratorio; non le vedo come esperienze separate, solo donando puoi avere quella pienezza, accettando di uscire da quella zona di comodità. Vorrei che arrivasse, a chi mi sta leggendo, non l’immagine di un Alessandro che ha fatto qualcosa di speciale, ma che quello che ho fatto io può farlo chiunque; uno non fa le cose perché è coraggioso o un eroe, e allora gli altri non fanno niente, ma si fanno delle scelte. Chiunque può vivere certe cose se lo desidera, non serve essere addestrati per stare vicino ad una persona che soffre; quello che ho fatto è cercare di stare vicino a persone che soffrono.
Sento di essere stata una persona che ha camminato con altre persone».

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