Un nuovo Vescovo per noi

Diacono Marco

Dal 7 maggio 2022 la Diocesi di Torino (e quella di Susa) ha un nuovo Arcivescovo. L’ingresso del nuovo Vescovo è sempre un momento importante per una diocesi. Vale la pena di ricordare che la diocesi è detta anche “Chiesa locale”, intendendo con ciò che dove c’è un Vescovo e c’è la comunità dei fedeli, lì c’è la Chiesa nella sua interezza. E non è poco.

Nel caso specifico dell’ultimo avvicendamento sulla Cattedra di S. Massimo ci sono alcune ulteriori peculiarità. Intanto non è così comune che in una diocesi rilevante come quella di Torino, che appunto è Sede Metropolitana, venga assegnato un Vescovo, anzi Arcivescovo, di prima nomina. In particolare, per Torino questa situazione, dal 1800 in poi, nel succedersi di 17 Arcivescovi, si è verificata, prima della nomina dell’Arcivescovo Roberto Repole, solo un’altra volta, con il Cardinale Michele Pellegrino, nel 1965.

Un altro aspetto rilevante sta nel fatto di come la nomina discenda da una scelta effettuata da papa Francesco all’interno dei sacerdoti della stessa diocesi. Certo il nome di don Roberto Repole era ben noto a livello nazionale e internazionale per via dei suoi molteplici incarichi nell’ambito teologico, ma diventare Arcivescovo della diocesi di appartenenza, sicuramente fa intuire una volontà di nominare qualcuno che conosca bene i problemi, ma anche le potenzialità, della Diocesi di Torino.

Tutti questi fattori hanno contribuito a rendere la celebrazione del 7 maggio molto suggestiva, quanto meno per il sottoscritto, riunendo in un’unica liturgia sia l’Ordinazione Episcopale, sia l’ingresso in diocesi.

Ripensando a quella celebrazione, credo sia interessante richiamare alcuni passi del ricco discorso di ringraziamento conclusivo. In particolare a me ha colpito un passo, quasi verso la fine, che riporto integralmente.

“Abitiamo un mondo ricco, pieno delle stupefacenti possibilità che ci sono offerte da una tecnica sempre più avanzata. Abitiamo un mondo in cui sembra possibile soddisfare ogni bisogno. E può crescere, anche tra i cristiani, la tentazione nefasta di chiedere ormai tutto a questo mondo, che rimane tuttavia finito, fragile, e in alcuni aspetti persino malato. Dirigere a questo mondo finito il nostro desiderio di vita infinita è però mettersi nell’anticamera dell’infelicità, e persino della disperazione. Non c’è proprio bisogno oggi di una Chiesa che sia il semplice prolungamento di questo nostro mondo. C’è invece ancora un bisogno immenso, dentro questo mondo, del servizio che possono rendere dei cristiani che continuano a rimanere in attesa della venuta ultima del Risorto: è il servizio della speranza, è il servizio di un senso per le nostre esistenze e la nostra umanità”.

Non so, ovviamente, quanto, in queste parole, ci sia di programmatico, rispetto all’incarico assunto dall’Arcivescovo Roberto, ma sicuramente invitano ad una profonda riflessione tutti i cristiani della Diocesi di Torino, ordinati e laici. E suscitano anche delle domande che, per quanto difficili, non ci devono spaventare. Quanto sappiamo essere motivo di speranza per chi abbiamo intorno? O ci stiamo appiattendo travolti da avvenimenti che ci sembrano infinitamente più grandi di noi? Sappiamo andare al cuore dei nostri fratelli? O ci sforziamo di dare risposte a domande che non ci vengono fatte?

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